Siamo quello che mangiamo: le emozioni e le relazioni a tavola

Siamo quello che mangiamo: le emozioni e le relazioni a tavola

La tavola è quasi pronta, mamma e papà ronzano intorno ai fornelli preparando le ultime cose per la cena, sottovoce o con occhiate d’intesa si scambiano le solite frasi: “Speriamo che mangi tutto”, “E se i broccoli non gli piacciono?”, “Pensi che dovrei preparare anche una minestra in bianco da dargli se rifiuta tutto il resto?”.

Se stai leggendo e senti che questa dinamica familiare rispecchia quello che accade quotidianamente nella tua cucina, allora potrebbe essere di tuo interesse leggere quello che segue in questo breve articolo.

L’alimentazione complementare, detta più comunemente ‘svezzamento’, è una fase della crescita dei bambini che richiede sicuramente molte energie da parte dei genitori.

Spesso fonte di frustrazione e sentimenti contrastanti, soprattutto quando si cerca di seguire schemi e tabelle ‘preconfezionate’, il passaggio dall’allattamento (naturale o artificiale) al cibo solido meriterebbe sicuramente una più approfondita attenzione dal punto di vista relazionale e psicologico, per il bambino e per la famiglia, anziché solo e strettamente dal punto di vista nutrizionale. Vorrei partire proprio dal punto di vista del bambino: mettiti nei panni di un neonato che ha circa 6 mesi di vita. Il suo mondo conosciuto va poco oltre l’abbraccio e il contatto con la pelle della mamma.

Nutrirsi, per lui, significa perdersi nella calda accoglienza del seno materno; da cui trae nutrimento alimentare ma soprattutto relazionale. Di sua spontanea volontà è difficile che decida che un cambiamento è proprio quello che ci vuole!

La natura, tuttavia, fa il suo corso, avendo sempre in primo piano la necessità dell’individuo di evolvere: compaiono nel bambino infatti diversi segnali, quali la capacità di stare seduto in autonomia e la perdita del riflesso di estrusione, segnali che i genitori possono cogliere per decidere quando iniziare a proporre al proprio figlio l’introduzione dei primi cibi solidi.

Se prendiamo alla lettera la parola ‘svezzamento’, significa ‘togliere un vizio’: fa riferimento proprio alla concezione (fortunatamente ormai superata) che il bambino sfrutti l’allattamento come un vizio, un ‘vezzo’, qualcosa di superficiale e non fondamentale, qualcosa di cui liberarsi il prima possibile e, possibilmente, anche in fretta.

Concezione superata ed erronea, così come quella che vede il bambino come un essere passivo e ‘furbo’.

Oramai sono conosciuti i benefici dell’allattamento (mi riferisco principalmente a quello naturale), al di là dell’apporto nutritivo, anche per quanto riguarda il sistema immunitario del bambino e la creazione di un senso di sé che deriva proprio dalla relazione di attaccamento alla mamma.

Questa base sicura, costituita giorno dopo giorno dal contenimento materno e dal contatto fisico, è essenziale affinché il bambino possa passare alla fase naturalmente successiva, quella dell’esplorazione, con un senso di fiducia in sé stesso che gli permette di fare le prime esperienze di allontanamento dalla mamma.

Per sua natura, spinto dalla curiosità, il bambino tenderà ad imitare i comportamenti osservati nell’ambiente circostante. Questa capacità innata adattiva, in concomitanza con gli sviluppi fisici e cognitivi, la comparsa della manualità fine e dei primi dentini, fa sì che, intorno all’età dei 6 mesi, il bambino possa considerarsi pronto per il grande passo, quello verso l’alimentazione solida.

Da parte dei genitori, è desiderabile che sia presente un grado di fiducia elevato nelle competenze del proprio figlio, e della sua naturale spinta verso la crescita, senza necessità di forzature dall’esterno.

Oltre a queste, deve essere presente anche la consapevolezza e la fiducia che il proprio figlio sia in contatto con i propri bisogni (in questo caso specifico, fame e sazietà): questa base sicura, ancora una volta, diviene fondamentale nel momento in cui il bambino sperimenta con il cibo.

Assolutamente in grado di percepire le aspettative genitoriali e ‘l’aria che tira’, il bambino si sentirà competente e fiducioso in sé stesso, motivato all’esplorazione, senza sentire che sta necessariamente ‘perdendo’ qualcosa. Inoltre, ancora una volta, per sua natura è portato ad utilizzare la bocca come organo sensoriale principale per esplorare il mondo: lo fa con qualsiasi oggetto, perché non dovrebbe accadere anche con il cibo?

La necessità di ‘pastrocchiare’ (utilizzo questo termine restando dal punto di vista degli adulti) è per il bambino vitale: dal suo punto di vista, si tratta di una vera e propria sperimentazione, di consistenze, calore, dell’effetto che gli fanno i diversi materiali o cibi con cui entra in contatto.

Conoscere il cibo significa toccarlo, annusarlo, guardarlo, assaggiarlo. Imparare a mangiare significa osservare i genitori mentre lo fanno, desiderare di essere simile a loro ripetendo il medesimo comportamento. Masticare significa non soltanto rendere pronto il cibo per la deglutizione, ma anche imparare a ‘assaggiare e mordere’ il mondo intorno, la vita, le esperienze, mettere in gioco la giusta dose di aggressività (quel poco che basta per addentare una mela!), funzione fondamentale per vivere una vita nel pieno delle scelte consapevoli e non passivamente.

Come ti senti quando si avvicina il momento della cena? Quali emozioni senti più presenti al momento del pasto - la gioia del riunirsi e del condividere, oppure la preoccupazione per il bambino, la sua crescita, spesso anche per il rischio di soffocamento? Tutto questo passa al bambino, che si nutre di cibo ed emozioni, che associa al momento del mangiare sensazioni di piacevolezza o spiacevolezza soprattutto sulla base del clima relazionale che c’è all’interno della famiglia: e il tipo di clima che si instaura è totalmente sotto la responsabilità degli adulti, dei genitori, poiché i bambini non fanno altro che rispecchiare quel che c’è. Come puoi offrire ai tuoi figli un’esperienza positiva? Puoi favorire la loro partecipazione ed il senso di appartenenza alla famiglia anche durante i pasti?

Tenendo conto di queste informazioni, ben presto si realizza che l’alimentazione non è solamente nutrizione ma anche relazione: fiducia, coinvolgimento, appartenenza, tutti sentimenti che emergono intorno al tavolo di cucina, luogo della casa dove si condividono la maggior parte dei momenti della vita familiare e dove ciascuno ha diritto di sentirsi parte della famiglia. Come può esserci spazio per questo, se il focus rimane unicamente il bambino - il suo comportamento, se impugna bene le posate, se sta mangiando a sufficienza, e così via?

Così si sentirà osservato, imbarazzato, la tavola di cucina diventa presto un campo di battaglia in cui si combatte per il controllo: il bambino, non sentendosi rispettato, tende a rinforzare le proprie difese e barriere, serrando i denti e la bocca. Ciò che ci sta dicendo non è: “non voglio nutrirmi” ma “non voglio questa relazione in cui mi sento costretto. Voglio che tu mi dia fiducia”.

E’ consigliato fare riferimento ad un professionista di fiducia nel settore della nutrizione per verificare gli adeguati apporti nutrizionali per quanto riguarda la scelta dei cibi da proporre, in quali modalità ed in sicurezza; e ad un’ostetrica, per l’assistenza al termine dell’allattamento (sia naturale sia artificiale); questo articolo non è sicuramente esaustivo poiché le casistiche sono tante quante sono le famiglie, tuttavia per una prevenzione dell’esordio dei disturbi alimentari fin dalla primissima infanzia, occorre tenere presente che questi hanno a che fare non tanto con il cibo in sé, e sono piuttosto un indice di disfunzione relazionale.

Rivolgersi ad un terapeuta di fiducia può significare molto se si desidera porre le basi per una buona crescita genitoriale e personale, e per prevenire l’insorgere di dinamiche disfunzionali all’interno della propria famiglia.

 

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Federica Ronchi

 

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